di Eleonora Frattarolo

1. Il tempo

Un’estate micidiale, questa del 1998. Bassa pressione, siamo atterriti dal troppo caldo e dalla troppa luce. Vite Capone mi guarda e dice: “… perché, vedi, io ho poco tempo …”, fa gesti ampi con le mani grandi controluce davanti alla finestra aperta che da sulla strada. Rido, mi guardo intorno, in questa stanza dove in bell’ordine accatastate una sull’altra sono scatole di cartone fabbricate dall’artista stesso, e dentro ognuna c’è un’opera, di carta. Il tempo è il maestro del prima e del poi, Vìto Capone il suo tempo lo ha tessuto nella lenta larga rete delle sue opere, c’è un tempo ampio e lento nei disegni, nei bassorilievi, nei pendents, nei fogli sparsi, nei libri e nei rotuli, un tempo pre-moderno tenacemente cresciuto in questa terra di Puglia dove spesso ancora si può nascere vivere e morire al ritmo delle stagioni. Forse per questo l’artista di Foggia continua a dire “non ho tempo”,perché il tempo del suo divenire è nelle fibre delle sue opere, e chi in un opera mette il suo tempo, che diventa maglia e trama e ordito e scrittura e lo si può toccare e accarezzare e prendere e guardare, chi il proprio divenire lo ha tradotto in opera, i] presente a volta lo vede come un vuoto impossibile da colmare.

E ci affacciamo alla finestra, a sentire le voci di sotto, uomini e donne che parlano si salutano si urlano dietro, suoni gutturali impastati con la terra, quasi senza vocali, e Vito guarda e ironizza, con quella ironia da atleta apatico, come dice di sé stesso nei momenti peggiori. E le voci si avvicinano e si incrociano e si allontanano lungo la strada stretta ohe porta alla piccola piazza dedicata all’Imperatore. Dicono che il palazzo di Federico II sia ancora lì sotto, ad aspettare che a qualcuno venga l’idea di aprire uno scavo e di attivare una cosa che nell’Altra Italia chiamerebbero “evento”. Qui di eventi non se ne vedono, una tettoia liberty di un negozio chiuso con l’insegna dipinta sulla muratura stinta si accartoccia lentamente, e in fondo alla strada di basole grigie palazzo De Vita, il più bello di Foggia,si disfa con lentezza inesorabile, e il tempo cancella a brandelli la preziosa inscrizione rinascimentale. C’è un legame radicato e profondo tra i ritmi di questa terra che da Foggia, città imperiale, si estende fino a salire gli aspri tratturi del monte Gargano, i suoi umori, i suoni, i suoi odori, la natura drammatica e totalizzante, e le opere di questo serissimo giocoliere della carta, che lavora intorno ai dati di un naturalismo antropologico da cui emanano infinite relazioni formali, tratte dal magazzi­no abissale delle immagini antiche.la natura drammatica e totalizzante, e le opere di questo serissimo giocoliere della carta, che lavora intorno ai dati di un naturalismo antropologico da cui emanano infinite relazioni formali, tratte dal magazzi­no abissale delle immagini antiche.la natura drammatica e totalizzante, e le opere di questo serissimo giocoliere della carta, che lavora intorno ai dati di un naturalismo antropologico da cui emanano infinite relazioni formali, tratte dal magazzi­no abissale delle immagini antiche.

Ci sono artisti lenti, pazienti, ha scritto Kubler ne La forma del tempo, la cui vita contiene un unico, vero problema. Così è per Capone, che da sempre va ragionando attorno ad un’idea, un’idea fissa, svolta con il filo e la carta in uno scrìptorium che ha luogo tra cielo e mare, in attesa che il carro del sole compia il suo arco.

2. La materia

I disegni esposti in questa mostra, iniziano nel 1978, stupendi, dove il segno è fibra delle superfici, che vibrano, avanzano, si allargano in moti nervosi e fantastici, un plasma di segni che ondeggiano e compongono la tessitura dei colori: sono sommessi, questi colori, sottovoce, parlano piano, dopo di loro sarà il monocro­mo, il bianco e il nero, a prendere il campo dell’opera. Il grosso lavoro dei “bianchi” inizia tra il 1979 e il 1980, i “libri” dal 1982, le “sculture da indossare” dal 1995. Dal 1979 Capone lavora con carta industriale, poi, dal ’92, inizia a fabbricare la carta che gli occorre, e da allora ha luogo una “reincartazione”, una macerazione di carte che genera poi la materia forte e fragile di queste pitto-sculture. Certo, in Italia già con artisti come Manzoni e poi Paolini,tra gli anni ’50 e ’60, va in frantumi una certa cultura di immagine e il relativo modo di intendere la funzione dell’artista, e avanzano perciò materiali non tradizionali, utilizzati in un discorso che analizza i modi della messa in codice, di formazione delle immagini e della loro corporeità. Con l’arte concettuale cioè, e con la nuova pittura, il lavoro artistico analizza gli strumenti operativi del fare arte. Ed è in questo contesto culturale che la carta, fino ad allora solo “supporto” acquista una valenza autonoma, mostra la sua esistenza di corpo, mostra sé stessa. Ma il lavoro di Capone, pur avendo ascoltato con estrema attenzione i motivi di questa cultura, e pur essendo figlio del nuovo che nasce dagli anni ’50, si distanzia da entrambe le ricerche appena dette. Lo separa dai concettuali il suo lavoro,fisico,caldo, concre­to, lo distanzia dalla nuova pittura un rapporto con i materiali che non si esaurisce nell’analisi delle loro possibilità. I “libri” ad esempio, accostati da alcuni a certe operazioni concettuali di segno algido, segnano il deflagrare del lungo percorso della scienza poetica dell’artista di Foggia, che per questo ha protratto e conduce questa specifica investigazione sulle pagine sulla storia e sulle forme del “libro” fino ad oggi, ben al di là quindi della stagione del “libro d’artista” o quant’altro. Il “Grande libro” del ’93, ad esempio, o le “Accumulazioni” del ’95, o il “Libro drammatico” del ’94… qui Capone ha tessuto gli archetipi dell’orizzontale e del verticale per dar luogo alla forma di segni immemoriali,arcaici ideogrammi antichi come la storia dell’uomo, parole scritte per essere sfiorate e guardate prima ancora che dette. Figlio del nuovo, Vito Capone, ma di questa terra amante, e della sua amata l’artista ripercorre anche antiche iconografie minimali: le basole delle strade, le candele delle processioni, le reti dei pescatori che da Manfredonia al Gargano tessono un tempo antico…

La forma avviene molto prima di apparire, perché il liquido cartaceo aggrappato alle intelaiature di canne, di canapa e fili diversi, uno spesso, uno sottile, come segni di due matite diverse, deve asciugare all’aria, e poi ancora l’intelaiatura sarà bagnata ed asciugata, e poi ancora ed ancora. Vìto paziente attende che il tempo passi e che la forma prenda sostanza. “Se io potessi lasciare dei segni nell’aria”, dice, e intanto la materia

effimera, la materia fragile creata con mano leggera, la materia sottile cresciuta attorno ai moti stellati dei giunti che irrobustiscono il manufatto, guadagna a poco a poco “millimetri di pensiero”, come scrisse Filiberto Menna. Fettucce, irradiano un altro tessuto, come tendini e nervi sottesi alla pelle di carta, che la sostengono e le danno turgore. Come pescatore che cuce le reti, come cacciatore di pesci che tesse le nasse, Capone sta sulla sedia curvo e lavora, tra terra e mare, nella casa di San Menalo tra i pini ed il cielo.

3. Il gesto

Alle canne, Vito, aggiunge filo, alla trama, rimpolpa il tessuto, con l’ago, cuce, tesse. Nell’intelaiatura delle opere fili di canapa che raccolgono maggiormente il liquido cartaceo, e questi, stretto in un abbraccio, non potrà più scivolare via; reperti di natura, canne piccole e grandi e qualche foglia a volte, e il lento tessere la trama e l’ordito con spaghi e cotoni e fili di ferro, tutto ciò racconta storie arcaiche ma molto contemporanee. Importanti poi i nodi, di filo, di ferro: nodi “vitali”, nodi che “tengono”, e che trattengono, l’orizzonte e il verticale di questo tessuto, “textum”. L’uomo moderno, ha scritto Mirceade Eliade, ha “dimenticato” la religione, ma il sacro sopravvive sepolto nel suo inconscio. “In certi casi, il comportamento dell’artista verso la materia ritrova e recupera una religiosità di tipo estremamente arcaico, scomparsa da millenni nel mondo occidentale. Senza dircelo, forse senza saperlo, l’artista penetra, talvolta pericolosamente, nelle profondità del mondo e della propria psiche. Dal cubismo al tachisme assistiamo a uno sforzo disperato dell’artista per liberarsi della “superficie” delle cose e penetrare nella materia allo scopo di svelarne le strutture ultime. Abolire le forme e i volumi, discendere all’interno della sostanza, svelarne le modalità segrete o larvali non sono, per l’artista, delle operazioni intraprese in vista di una conoscenza obiettiva, ma delle avventure pro­vocate dal suo desiderio di cogliere il senso profondo del suo universo plastico”.

4. Architettura e rinuncia

“Quando tesso col filo, vedo il disegno”, dice Vito. E un mondo aurorale, quello che prende forma, senza nostalgia per mitiche età dell’oro, ma con adesione al qui ed ora di una poetica che tende ad un ritorno all’inizio: non visione post-moderna, ma pre-moderna, come solo in questi luoghi, forse, può avvenire. Na­scono, queste opere, dal fascino per i modi elementari della materia, e dal desiderio di liberarsi delle forme morte, dal desiderio di abbandonare come zavorra il più, e di ancorarsi al meno. Per questo le tessiture che aggallano e irruvidiscono le superfici, che non tradiscono violenza sulla carta stessa, non lacerano, non perforano, ma scaturiscono, come è sempre nella buona architettura, dalla rinuncia. L’aria che le attraver­sa, è rinuncia a porre altra materia. Nei bassorilievi bianchi, dove il dato antropologico e naturale diventa iconografia (“Le foglie”, “II fossile”, “I mattoni”) architettura è armonia, arte del congiungere nella misura, scansione della forma. Nei magnifici mirabolanti cappelli, dove il ricordo delle “avanguardie” si salda ad un serissimo gioco in libertà, si attua la proteiforme vittoria di una architettura monocroma: cappelli bianchi, cappelli neri. Ornamentati di aria, nuvole stracciate dal vento in un giorno di primavera, i cappelli bianchi.

Come elmi bruciali, come antichi cimieri naufragati da una battaglia di fuoco, quelli neri. Apoteosi del costruir sottraendo, le nere “sculture da indossare” giungono alle rive del presente da scontri mitici eppure divertenti e spiritosi: così è, ad esempio, per l’indimenticabile “pezzo” del ’97 dove l’intelaiatura di un astratto teschio di cavallo si erge sulla calotta del copricapo a ricordarci che l’elmo nasce forse da lì. da un guerresco bucranio impregnato di terrori ancestrali. Ha le seste negli occhi, Vito Capone, che, giovane, studiò architettura, e connette con sapienza mestiere ed idea, in una geometria poetica.

5. Il caso

E le tessiture di queste opere sono una breve storia dell’infinito caso: coincidenze. II caso, questo processo molto misterioso del fare arte contemporanea (ma accade solo nell’arte contemporanea?) che è studio dell’ef­fetto per poterlo riprodurre in laboratorio, come fosse un elemento chimico, un fenomeno. Quindi, quando lo si riproduce non è più caso ma certezza, non più forma della casualità ma sua sub-stantìa. Perché c’è stata ripetizione del primo gesto che portò al casuale. “Sono un ragno che cattura la forma”, dice Vito.

6. Il bianco e il nero

U

Usciva da un’ubriacatura di colore, il nostro artista, quando si dedicò ai monocromi, e vi si dedicò come solo chi conosce davvero il colore può fare (e solo chi conosce davvero il colore può farne a meno). “Con il padre di Andrea Pazienza, Enrico, ci fermavamo sul Gargano a guardare i colori, a commentarli e a trascriverli nella memoria, poi improvvisamente dicevamo qualcosa … e ridevamo”. Ubriacatura cromatica, e quindi, poi, il bianco ed il nero, soli.

Alleggerimento della forma, alleggerimento della tavolozza. Ma anche, radicalizzazione del gioco.
“Bianco e nero
uno scontro di mondi
uno scontro vero.
Mi piace il bianco nero e il nero bianco lo
scontro dei mondi.
E non è quasi mai (quasi mai)
il nero che sorprende il bianco e lo sconvolge lo relega lo spegne
è semmai, al contrario, il nero superbo e leggero e profondo
concede ricovero asilo nella sua casa d’oro di ombre
al bianco viaggiatore al bianco sognatore al bianco sperduto.
Al bianco in cerca d’avventura”,
ha scritto il poeta Roberto Roversi.

7. Andiamo

Il tempo lento dell’opera, la materia prima e aurorale, il gesto ripetuto ed antico, l’architettura e la rinuncia al “più”, il caso come coincidenza voluta e ricreata, il bianco sognatore ed il nero guerriero, e infine, questa ultima opera, grande icona simbolica. Serviva, per quando arriverà la sera. Allora varcheremo le soglie di questo letto, e sarà di legno e di spine, con sofferenza, e di saggezza antica. È fragile, e vi si impiglia il vento, e vi traspira l’odore del tempo. Da qui passeggeremo altrove, da qui trascolorirà l’azzurro dei nostri occhi, e fortunato colui che in un letto nasce, e nello stesso muore.

Bologna, Settembre 1998

Eleonora Frattarolo

Scrìptorium Palazzo Dogana (Foggia, 1998)