di Filiberto Menna
C’è una esperienza dell’arte che ricorre di frequente nelle vicende artistiche contemporanee, una esperienza orientata verso procedimenti di riduzione linguistica, spinti a volte fin quasi a una sorta di grado zero, di “un grado zero della scrittura”. Si tratta di un fenomeno di smaterializzazione dei mezzi espressivi, che si sottraggono non solo alle richieste della rappresentazione ma anche, a volte, alla ricchezza coinvolgente del colore. Il processo riduttivo tende a definire figure elementari e a mettere in evidenza il supporto, sottraendolo alla indistinzione semantica mediante segni minimi, quelli strettamente indispensabili a segnalare il momento germinale della pòiesis. Forme geometriche e monocromia del bianco sono gli elementi di più frequente impiego proprio perché si presentano come unità linguistiche di base, come segni che più di altri parlano di una esigenza di semplificazione formale. Sono i segni appunto dell’arte di Vito Capone, che da molti anni ormai rimane fedele alla linea artistica della riduzione, sospinta ancora una volta fin quasi al limite dello zero. Ma la riduzione linguistica, che qui si esprime nel bianco su bianco e nell’impiego di segni ricondotti allo stadio di tracce appena percepibili, tende a creare una mediazione e una congiunzione tra i connotati stilistici del linguaggio pittorico e di quello scultoreo: di qui il carattere sperimentale del lavoro di Vito Capone, la ricerca di una nuova grammatica e di una nuova sintassi condotta con spinto laico, con un certo disincanto, persino, se lo si confronta con alcune delle declinazioni storiche dell’anicosmo moderno che pure sono stati più volte chiamati in causa per spiegare l’opera di Capone, la quale appare impermeabile alle motivazioni mistiche, esoteriche e alle aspettative escatologiche di esperienze come i! Suprematismo e il Neo-plasticismo.
L’opera di Vito Capone vive dunque in uno spazio mentale in cui ideologie e aspettative utopiche risultano completamente assorbite dentro una texture cesellata da una mano artigiana e dentro figure che affiorano appena dalla superficie diafana del supporto di carta, per poi passare dai piano di entità astratte al livello di forme architettoniche. I movimenti vitali che segnano la nascita della forma sono scanditi da intervalli minimi, da millimetri di pensiero, si accampano in uno spazio in cui le minute ma consistenti morsure esaltano la tridimensionalità dei prospetti assonometrici. L’intaglio della carta perviene a un effetto scultoreo che convive con l’essenzialità lineare dei profili geometrici. Ne risulta una costruzione dotata quasi di un effetto decorativo, esaltato o attutito dal campo bianco della superficie, che agisce da zona neutra dove le forze tensionali fissano i singoli istanti del loro movimento come le sfere su un quadrante. La stessa scelta della carta, come protagonista incontrastata dell’opera e dei procedimenti che la realizzano, risponde ad una esigenza tutta mentale dell’artista, a una intenzionalità progettuale che ha scelto la chiarezza come propria insegna: una realtà cristallina su cui il disegno incide le sue razionali, emozionali esplorazioni.