di Marcello Venturoli
Anna D’Elia, che s’è occupata più volte di Vito Capone e ne conosce la storia fin da principio, in un breve e limpido intervento su l’artista, mette in luce il difficile e quasi drammatico suo punto d’arrivo nel quale confluiscono istanze diverse, se non opposte, “la primarietà della materia” e “il suo uso energetico, figli dell’arte povera; l’attenzione alla processualità, al lavoro… paziente, estenuante, sulla carta, (che) rimanda alle esperienze del comportamento. La fissazione su un’idea, il voler ribaltare i modi, i tempi, i materiali del fare arte, inserisce questa operazione all’interno dell’area concettuale”. Aggiungerei anche,
se volessimo porre i vari modi degli anni Settanta nella cartina di tornasole del Vito Capone tutto bianco, anche la neo pittura, che, del resto, non dimentica in un altro passo del suo scritto la studiosa: “Rispetto alla sua precedente ricerca pittorica, l’artista indaga su rapporti diversi con i materiali e i procedimenti del fare arte che riduce all’essenziale”.
Che sia proprio tutto negli anni Ottanta questo risultato assai preciso e riconoscibile dell’artista di Foggia e non piuttosto una somma sensibile e meditata della temperie artistica ereditata, vedremo appresso; ora sarà intanto opportuno illustrare in che cosa consista l’opera di Capone.
Lo strumento è un “taglierine” modesto, da cartolaio, che possiamo chiamare anche bisturi della carta; la materia su cui operare è la più spessa e agibile carta Fabriano 600 grammi di spessore, cotone cento per cento, su cui l’artista interviene, operando nell’incisione con varie spinte, e alzando così, di scavo in scavo, minute scaglie o squame o tessere, che fanno crescere, di qualche decimo di millimetro il piano della carta in sagome, geometrie, emblemi, scritture, pagine. Il procedimento, se è fitto, e in apparenza, uniforme, non assume ovviamente alcuna automaticità, intanto perché la punta metallica che opera come lo scalpello a far bassorilievi sul marmo, scavando e facendo crescere la carta, agisce in collaborazione con l’indice della mano dell’artista, che ribatte, uniforma, rischiaccia come una sorta di martelletto la “zona”, un attimo prima incisa, in un misto di pressione morbida e rigida; e poi perché Vito Capone riempie la carta dei suoi rilievi con assai precisabili diversificazioni. Studiare le opere dell’artista attraverso gli ingrandimenti della lente, per esempio, è un godimento, perché si assiste a un miracolo di diversità nella uniformità dei “gruppi” di tessere.
L’itinerario lenticolare che evidenzia la fattura, porta a leggere l’opera di Capone quasi al futuro, si direbbe che ne faccia una lettura..profetica, tanto si evidenzia in chi sa quali misure grandi, in chi sa quali materie – ma poi la carta qui è la materia delle materie, la più aperta alla forma, la più catalizzante tra ideologia e fantasia – usate dal pittore domani, questo raggrupparsi di nodi, di virgole, di impronte, identici solo a coprire campiture In un ben determinato confine, come di campi visti da un aereo in un plenilunio livellatorio. Singolare in tutto, il quadro artistico ed umano dell’amico Capone. Su un altissimo corpo, una testina nera come di mantide religiosa, gli occhiali, l’espressione dolente ed acuta, una calma che tiene, come una cenere i carboni accesi, la frenesia; l’ordine di chi si organizza via via quel “provvisorio definitivo” che è l’arte per pochi e che porta in una gran borsa, in tanti pacchetti, di fogli avvolti in carte veline e che mostra come un commesso viaggiatore di gioielli. Sentire che egli si porta tutto con sé, che siamo a vederlo tutto sotto la stessa lampada dove scriviamo le lettere agli amici e le nostre poesie, è un ennesimo dono che ci fa: per quel senso di felice vertigine che ci prende, a scender subito con lui nel fondo dalla immagine, quel pozzo bianco, senza ombre. Perché, intanto, nel pur bel catalogo monografia che Sylvia Franchi gli ha fatto in occasione della mostra personale ad Artivisive nel 1983. con testo di Federica Di Castro, le immagini tecnicamente esemplari in fotografia, non rispondono al vero, perché la foto accentua le ombre negli incavi e fa di un fatto di geometrie atmosferiche o sensibili come in un trepido tessuto cromatico, un fatto di geometrie segniche. Anche i particolari fotografati portano fuori strada, perché mostrano, si, il lavoro, e cioè come e quanto questi vuoti e pieni facciano un altro tessuto, appunto, ma staccano dal contesto le altre parti in una sorta di regressione a manufatto.
Certo, opera per opera, Capone va letto come si sfogliano le pagine di un libro, da cima a fondo e pagina per pagina. La prima fase, quella della mostra di Artivisive è stata illustrata acutamente da Federica Di Castro. Sia per quanto concerne il lato stilistico in “un’azione che ogni volta si ripete, ogni volta nuova per ogni nuovo foglio”, sia per quanto concerne le immagini, diciamo pure i contenuti di questo scrivere e disegnare di bianco sul bianco, di “rocce, pareti, muri, tele, fogli… il luogo lo spazio come materia, origine dell’opera”. In quel “grattare” (cioè la spatolatura dell’indice a martelletto) in quel “sollevare” (il rilievo) in quel “Graffiare” (il graffito) tutti verbi usati dalla collega, Vito Capone passa “dall’archetipo alla sua accezione sensibile, dal valore matematico al valore espressivo, dalla formula al suo senso comunicante”. In questa fase è già tutto o quasi lo sviluppo delle successive a cominciare da quelle più liberate e meno rigorose geometrie, che diventano architetture labirintiche, emblemi, eseguite intorno al 1984. particolari ambientali per cui questo artigiano che crea da tessera a tessera sculture di carta su carta, entra anche, a modo suo, nella storia: storia come epoche stilistiche, come segni di monumenti, archi di porte, triangoli filosofici, buste i cui indirizzi non saranno mai scritti, oggetti e figure geometriche dove il vuoto e il pieno, in virtù della luce (Armando Ginesi ebbe a scrivere, in occasione della partecipazione di Capone alla splendida mostra di Fabriano “C-Arte” Fabriano, 1985 che “la luce nei suoi lavori costituisce l’elemento sublimante”) diventano di un nitore asettico, come il bianco serico, il bianco del marmo. Questa “maniera” nel medesimo momento subisce un rapporto diverso tra vuoti e pieni, accentuandosi in un massimo materico, ora come un pulviscolo spaziale pietrificato e suddiviso in scomparti; ora allargato per tutto il foglio a magma, come se l’orror vacui del bianco si fosse riempito di una presenza esistenziale di antica origine informale.
Con artisti così rigorosi, dai trapassi lentissimi e dalla esecuzione tecnica ritornante e assimilabile quasi a un meccanismo, non sì può e non si deve trascinare a noi per i capelli la poesia; la poesia si trova dentro le immagini di Capone doverosamente stretta, e parla con quella voce afona e potrei dire muta che le conferisce il drastico bianco; ma guai se la ignoriamo. Correremmo il rischio, allora, di non comprender nulla dell’artista.
D’altra parte la poesia viene molto spesso “doverosamente stretta” nelle tecniche predilette e, talvolta, imprescindibili, degli artisti. Mi ricordo i discorsi che facevamo con Getulio Alviani, un programmatico ingegneresco di materie e trattamenti, con segni di un automatismo matematico, specie negli alluminii: io vi trovavo molti significati, naturalmente tutti suggeriti dal variare delle forme geometriche incise, in virtù della luce, significati che non potevano non essere di poesia: ciò che Alviani negava recisamente, in quanto la sua arte doveva essere scientifica, auto sufficiente per qualunque altro significato che non fosse “in re ipsa”. Non è proprio del tutto il caso di Capone, abbiam visto, ma certamente, si possono a questo punto trarre alcune conclusioni che valgono anche per lui. Che, per esempio, la sua maniera di rifiuto dell’iride e della figura, esprime una sintesi non tanto e non solo per esclusioni, ma per assorbimenti: cosi è quasi certo (come appunto per un Alvianì) che egli non rimescolerà mai le carte per la figura e per l’iride perché queste sue carte non sono mescolabili. La vocazione al bianco che nella presentazione in catalogo della mostra “Bianco, semaforo dell’arte” organizzata dal Comune di Foggia, Giorgio Di Genova chiama “sensibilismo leocofilo”, ha avuto precedenti assai notevoli, a cominciare da quelli di un classico astrattista, Angelo Savelli che opera negli Stati Uniti; sinfonie di bianchi hanno creato Prampolini e Burri, Pascali e Manzoni, ma forse colui che ha puntato sul bianco come mezzo di una fedeltà di immagine, è stato fin dagli anni Sessanta Giorgio Bompadre.
“Sembrerebbe che il bianco risvegli in taluni artisti, sopiti istinti ideografici -scrive Dì Genova – l’assolutezza puristica del bianco compatto è una sorta di virginale offerta al possesso della penetrazione della scrittura impressa o incisa di forme e idee… Il graffiare scandagliante la struttura di un materiale composito come la carta, permette a Capone di creare variazioni di superficie a diversa grana epidermica, attraverso cui, in definitiva, si disegnano e prendono letteralmente corpo le immagini..” E immagini anche nel significato che Alviani non accetterebbe, ma Bompadre si, sono quelle di una fase successiva alle già illustrate di Capone, che io festeggiai all’Expo arte di Bari del 1984 quella dei libri.
L’artista ne ha costruiti di varie specie, uno sfogliabile, di veri e propri piccoli volumi bianchi con pagine bianche scritte di bianco, che pèrdono la loro vis concettuale appena presi in mano e sfogliati: si tratta infatti di veri e propri libri dove al vuoto è sostituito il pieno allineato delle righe, si tratta di libri che forse un cieco dai polpastrelli particolarissimi, o comunque un esperto di linguaggi segnici rilevati, sarebbe forse in grado di leggere. Mirella Bentivoglio, nella sua mostra unica a Palermo, dove riunì tanti fascinosi libristi d’ogni tempo e Paese, forse si sarebbe compiaciuta anche di questi manufatti di Capone. C’è poi un altro tipo di libro non sfogliabile, aperto come li apre Maria Lai, soltanto che l’operazione è diversa in tutto, nella Lai il libro è scritto col filo della macchina da cucire e gronda filo come se i caratteri sì sciogliessero dai gracili leggii bianchi che li sostengono; i libri di Capone sono fissati come dei reperti sterili, in bacheca. Quanto ai caratteri delle righe di queste pagine, devo aggiungere che non si tratta di aver mentito pagine stampate né scritte, sono messaggi incisi su pietre immaginarie, su papiri in simbiosi con le nevi, con caratteri irregolari, cancellature, parti rilevate, si direbbe in neretto, se il neretto potesse essere fabbricato ed evidenziato soltanto coi bianchi. Per queste tessiture in certo senso arcaiche, dove prevale la manualità, mi vengono in mente le ceramiche ultime di Corrado Morelli e i “muri” ad affresco di Giorgio Celiberti. Non tralascerò, nell’illustrare questa fase librista di Capone, il libro fra due rotoli, o la pagina che s’apre fra due rotoli, anch’essa di notevole suggestione.
È qui che si innesta una tappa degli oggetti o delle sagome o dei ritagli, ora raggiunti con la lavorazione della carta, more usate, in solidi geometrie tridimensionale, quali archi, stele, cerchi, e, anche, mentiti frammenti, prototipi di altri da eseguire di dimensione assai maggiore, progetti di cose distaccate dall’habitat-cordone ombellìcale della carta. Il fatto è che il triplice strato con cui prende corpo l’immagine di Vito Capone, sotto, il cartone, sopra la carta e, questa carta, poi scolpita nel modo che ho illustrato, assume spessore e tangibilità diversi: la mezza ruota istoriata, la semicolonna con intarsio, cornici come di raffinati merletti, mentre acquistano autonomia dalla carta in certo senso fuori della pittura, anzi da ogni spirito di neo pittura, pèrdono come oggetti plastici, in quanto non trovano più il vero loro rapporto di grandezza sul bianco della carta.
Ma questa fase è in divenire e merita non soltanto tutta l’attenzione della critica, ma l’impegno dell’artista a svilupparla: infatti basta affrontare con la lente di ingrandimento questi oggetti, per ritrovarli pieni della originaria suggestione nella “pelle”, messa su scaglia a scaglia da questo facitore di bianche livree. E poi commuove il fatto che, non appena l’artista sembra trasgredire dal suo teorema, di restar fisso cioè alla carta per generare bianche immagini appena rilevate col suo bisturi fantasioso, subito gridiamo allo scandalo, lo vediamo inammissibile: vuoi dire intanto che la permanenza nelle fasi precedenti, che tanto amiamo, non è una abitudine, ma una conquista, tanto sua, quanto nostra: che per vincere questa scommessa perduta in partenza ha dovuto molto combattere e definire, escludere e insistere, che Vito Capone ha trovato un suo spazio di ricerca, sempre aperto anche se queste aperture via via gli costano la stessa fatica e forse maggiori delle precedenti. Essere un artista operante negli anni Ottanta, come scriveva Anna D’Elia, non solo anagraficamente, ma in virtù di un pacchetto culturale portato con sé, è per l’artista di Foggia assai più difficile di altri, che saltando a pie pari le loro esperienze dì neo pittura o concettuali, si buttano, non so con quali esiti, dato anche il ritardo, fra il goliardismo della trans avanguardia.
Marcello Venturoli
Tre serigrafie per l’AVIS – Gennaio 1986